Cicatrici

 

di Fiammetta Carena - lavoro ispirato al Tieste di Seneca

regia Maurizio Sguotti

con Bubacarr Bah, Simone Benelli, Tommaso Bianco, Matteo Di Somma, Maurizio Sguotti e Alhagie Barra Sowe

sculture lignee Christian Zucconi

spazio scenico Kronoteatro

costumi e oggetti di scena Francesca Marsella

disegno luci Andrea Fasciolo

responsabile tecnico Andrea Fasciolo, Alex Nesti

musiche MaNu Dj

si ringrazia Nicoletta Bernardini

produzione Kronoteatro

con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello

durata 75 minuti

 

Lo spettacolo si basa sulla vicenda tragica del Tieste di Seneca, sviluppandosi in un racconto sul potere che attraversa le epoche, dall’antichità a oggi.

 

Il Potere che si cura e si nutre solo di se stesso. Un potere da accrescere e mantenere fino alle estreme conseguenze. Un esercizio feroce e autoreferenziale, incurante delle vicende di chi lo subisce, ubbidiente e rassegnato, massa distante e anonima.

 

Tieste è l'eroe tragico raccontato da Seneca, vittima predestinata della furia vendicativa del fratello Atreo, succube e forse complice di un insaziabile brama di potere, preda di una spirale di follia e di desiderio di morte che lo trascende e lo travolge, trascinandolo in un abisso di perdita e di orrore.

Due fratelli appartenenti alla stirpe di Tantalo, altro eroe tragico di tradizione mitologica greca che ha osato sfidare gli dei e che, per punizione, è costretto a subire un supplizio atroce: a memoria

eterna del suo misfatto, sebbene sia oramai un'ombra, avverte costantemente il bisogno di mangiare e bere; legato ad un albero da frutto carico di ogni qualità di frutti, ed immerso fino al collo in un lago d'acqua dolce, appena prova a bere, il lago si asciuga e non appena prova a prendere un frutto, i rami si allontanano o un alito di vento improvviso li fa volare via lontano dalle sue mani.

 

Quale migliore allegoria dell’eterna fame di potere, destinata a non saziarsi mai? Dell’eterna sete di onnipotenza e di immortalità destinata a rinnovarsi perennemente?

 

Proprio partendo da Tieste e Atreo, in una sorta di discesa agli inferi, si dipana l’incessante danza del potere e del terrore di perderlo, della paranoia, che il febbrile desiderio alimenta senza requie.

Latitudini ed epoche diverse; tribù, regni, signorie, il passato si riverbera sul presente e viceversa nell’eterno gioco del desiderio di potenza, mai sazio e colmo di insidie, reali o immaginarie.

Lo schema è sempre duale: il potente e il suo “nemico”, forse vero, forse presunto, colui che lo insidia, ne limita la compiutezza, lo tradisce, gli fa da specchio distorto.

 

E, sullo sfondo, il popolo, presenze oscure, fantasmi. Un coro di manichini, testimoni, figli sacrificati. E l’eterno interrogativo: può l’uomo sostituirsi alla divinità o è destinato a soggiacere ad essa? Schiavo, strumento o pari, o forse addirittura superiore?

 

Il percorso di contaminazione con le arti figurative, iniziato con Cannibali, si rivolge qui all'arte scultorea.

 

La collaborazione tra Christian Zucconi e Kronoteatro inaugura un nuovo corso d’opere dell’artista piacentino interamente dedicato al teatro. La rappresentazione del Tieste senecano si avvarrà infatti della ricerca più recente di Zucconi, che, passando per le sculture in pietra distrutte e svuotate esposte al Castello Sforzesco di Milano, al Museo dell’Opera del Duomo di Prato, ai Musei Civici di Piacenza, all’Antico Ospedale del Ceppo di Pistoia e alla 54° Biennale di Venezia, approda a soluzioni estetiche e tecniche inedite nel proprio corpus, come l’utilizzo del legno e altri materiali non lapidei quali cordami e cuoio. Fondamenti della ricerca rimangono per Zucconi il corpo umano, visto come forma via via alterata dalla Storia e dalla cultura e la riflessione sulla violenza, la sessualità e l’anomalia, sul rapporto tra singolo e collettività, individuo e potere.

 

Se il riferimento culturale è il Tieste di Seneca, i riferimenti iconografici prendono spunto da un lato dall’arte devozionale e popolare delle statue da vestire, dei busti reliquiario, delle marionette e delle pupae romane, dall’altro dalla tradizione scientifica e dallo studio del corpo umano mediante modelli lignei e Veneri anatomiche scomponibili. Le 9 sculture da muovere in scena ritraggono persone esistenti intagliate nel legno a grandezza naturale. Tuttavia l’utilizzo di materiali industriali a colorazione naturale dichiara da subito la valenza simbolica delle figure piuttosto che la ricerca di verosimiglianza, nell’intento di ripulire la forma da ogni orpello e da ogni pretesa estetica per lasciare spazio al gesto e all’azione dell’attore.

 

In un tempo e in un luogo indefiniti e claustrofobici cinque ragazzi vengono tenuti reclusi da un uomo inquietante, che viene definito il “Maestro”. I ragazzi non hanno nome, ne’ storia; sono sperduti e immemori. L’unica percezione che hanno del mondo esterno è quella di una minaccia oscura e informe, immagini spezzate, attraversate da echi di guerra. Non ricordano da dove vengono, ne’ perché sono lì. Orfani. Orfani di madre, di padre, di memoria, di realtà… Orfani di futuro.

Il Maestro li guida sottilmente, li manovra, gioca con loro un gioco indecifrabile e perverso che li allontana sempre più dalla propria umanità, dalla propria individualità, da dubbi e paure.

Voci di donna, di bambina, di vecchia li accompagnano nel loro cammino verso l’alienazione. Il loro tempo viene scandito da conflitti sempre più feroci, dalla lettura di un testo sacro, rigidamente monoteista e ossessivamente ripetitivo e da esercizi ginnici dal sapore guerriero.

Infine il percorso viene compiuto, il Maestro li ha preparati.

Forse alla guerra, forse ad un credo, forse all’eterna ripetizione di un gioco delirante.

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